All’epoca della lenta ripresa dopo i danni causati dalla seconda guerra mondiale, sulle strade di campagna era quasi impossibile imbattersi in una pattuglia di tutori del traffico. Carenza che permetteva di trasgredire le norme dell’allora scarno codice stradale senza subire alcuna conseguenza. Ma non sempre in famiglia tutto andava liscio…
Verso la metà degli anni Cinquanta, essendo poche le automobili che circolavano sulle strade italiane, i controlli erano quasi del tutto assenti. Perciò, anche chi non aveva ancora l’età per la patente poteva mettersi al volante e guidare lungo le stradine tutte curve che delimitavano le proprietà terriere della campagna, nel nostro caso cremonese, senza temere conseguenze perché, su quei percorsi polverosi, di pattuglie di polizia o di carabinieri, non si era mai vista neppure l’ombra. Per passarla liscia, comunque, i genitori non dovevano in nessun modo scoprire la marachella, altrimenti erano guai. All’epoca era, a volte, lo stesso padre a dare al figlio, appena arrivava ai pedali, i primi rudimenti, se non altro per poter dire con orgoglio che il suo bambino già sapeva guidare.
Un ragazzino di una località non lontana da Cremona aveva imparato a condurre con una tale sicurezza che, durante la quotidiana pennichella del padre, scorrazzava indisturbato al volante dell’utilitaria di famiglia, sfiorando cascine e campi di frumento, all’epoca ancora pieni di papaveri. Non era importante se la mamma se ne fosse accorta: quel che contava era tenere all’oscuro il severo padre. L’uso segreto dell’auto paterna aveva luogo in estate, quando il solleone invitava, dopo il pasto, alla penombra della camera da letto. Aiutato dal fratello ancora più piccolo, il ragazzino spingeva fuori dal cancello la 500 C e, raggiunta una distanza di sicurezza dalla casa, l’automobile veniva messa in moto. Dopo una trentina di minuti (il padre dormiva solitamente per un’oretta), l’auto rientrava nel cortile a motore spento fermandosi dove era stata presa. Vedendola, nessuno avrebbe potuto pensarla fino a un secondo prima lanciata su rettilinei sterrati sollevando polvere, sfiorando cascine, spaventando ciclisti e svegliando mandrie.
L’abituale fuga prevedeva anche l’ingresso in una cascina di amici di famiglia, nel cui cortile veniva fatta un’inversione che lasciava sul cemento i segni delle gomme. Poi, via di nuovo verso casa. Tutto si stava svolgendo in totale segretezza, quando in famiglia ci fu una novità: il menù quotidiano era cambiato. In luogo di uova al burro, bistecche o salame, il secondo piatto era costituito dal pollo, arrosto o lessato, mentre prima veniva cucinato soltanto alla domenica e nei giorni festivi, quando la coscia andava a ruba tra i bambini, l’ala un po’ meno e ai genitori non restava che il petto. Quel cambiamento di menù aveva una ben precisa causa. Quasi ogni giorno, infatti, qualche contadino della zona si presentava al papà del ragazzino con una o, a volte, anche due galline, ormai passate a miglior vita, le zampe legate al manubrio della bicicletta, pretendendo il pagamento del danno. Affermava che erano finite sotto le ruote dell’auto guidata dal figlio. Il prezzo era di mille lire per ogni pollo, somma che il genitore pagava senza battere ciglio. E qualcuno, quasi ogni giorno, si presentava a riscuotere l’indennizzo per i pollastri perduti, che regolarmente finivano in padella. Il genitore al figlio non disse nulla. Ma quando egli, commerciante, si recò in quella cascina per acquistare cereali, si accorse delle strisce nere lasciate dalle gomme sul cemento dell’aia. Allora, rivolgendosi ai presenti, non senza una punta d’orgoglio disse sicuro: “Queste le ha fatte mio figlio!”.
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