stata la prima vettura della sua categoria a essere prodotta in grande serie. Meccanica popolare, linea insolita, carrozzeria in plastica e trazione anteriore o integrale (ma solo a fine carriera) per un modello oggi da collezione
Negli anni Sessanta e Settanta le “spiaggine” erano uno dei temi sui quali numerosi carrozzieri per lo più italiani avevano costruito il proprio successo: si trattava di vetture derivate da modelli popolari, come le Fiat Nuova 500, 600, 600 Multipla, carrozzate da Ghia, o come la più pretenziosa Autobianchi Bianchina Cabriolet, fabbricata direttamente nello stabilimento di Desio. A cavallo dei due decenni, altri carrozzieri crearono modelli in piccola serie, sovente venduti direttamente dalle reti dei concessionari ufficiali delle rispettive Case automobilistiche. Fu il caso delle Renault Rodeo e della Volkswagen Pescaccia, mentre in Italia Moretti, Savio e Scoiattolo realizzarono vetture decapottabili a metà strada tra il concetto di fuoristrada e quello di spiaggina sfruttando la base meccanica delle Fiat Nuova 500, 126 e 127.
L’unica Casa costruttrice da grandi volumi che introdusse a listino un modello dalle caratteristiche analoghe fu però l’inglese BMC, con la Mini Moke del 1964, vettura che doveva fare i conti con un’impostazione di base sin troppo stradale, con ruote piccole e baricentro basso.
Un successo ben maggiore arrise qualche anno dopo alla francese Citroën, che poteva utilizzare non solo il motore e la trasmissione già ipercollaudate delle 2CV e Dyane, ma anche il relativo telaio a piattaforma. La Mehari nacque proprio in questo modo, grazie all’iniziativa di Roland de la Poype, uomo di nobili origini e titolare della SEAB (Société d’Exploitation et d’Application des Brevets, ossia Società di sperimentazione e applicazione dei brevetti). Egli, notando il successo ottenuto dalla Mini Moke, pensò di cavalcare l’onda e proporre a qualche Casa costruttrice l’idea di una vettura dalle caratteristiche analoghe a quelle della vetturetta inglese da tempo libero. La proposta giunse anche a Pierre Bercot, all’epoca presidente della Citroën, il quale accettò la proposta e la girò a uno dei membri del team di designer della Casa francese, Jean-Louis Barrault, con il quale venne fissato un incontro proprio con de la Poype. Dopo aver preso una 2CV Fourgonnette e dopo averla denudata di tutti i pannelli di carrozzeria e di tutti gli interni, ne venne analizzato il telaio a pianale tipico di tutte le vetture derivate dalla 2CV. Alla fine si decise di costruire una carrozzeria interamente in materiale plastico, allo scopo di evitare il formarsi della ruggine e di risparmiare peso influendo così positivamente sulle prestazioni.
Inizialmente si fecero solo delle prove utilizzando pannelli in cartone fissati sul telaio nudo della 2CV, ma di lì al prototipo con la vera e propria carrozzeria in plastica il passo fu breve. I primissimi prototipi avevano la carrozzeria formata da pannelli in ABS lisci. In un secondo momento si decise di utilizzare pannelli zigrinati a nervature fitte orizzontali, in modo da rendere più rigido il corpo vettura. Il motore utilizzato inizialmente era un bicilindrico da 425 cc. Da quel prototipo agli esemplari di pre-serie passò poco tempo: come base meccanica fu scelta quella della Dyane, a sua volta imparentata con quella della 2CV, per cui il progetto rimase fedele all’idea iniziale a tutto vantaggio del time-to-market.
Roland de la Poype aveva ipotizzato e sperava di dover produrre la vettura nel suo impianto, ma Bercot lo sollevò dal compito, imponendo che la produzione avvenisse nell’impianto di Quai de Javel. A de la Poype venne tuttavia richiesto inizialmente di produrre i 12 esemplari di pre-serie da destinare alla presentazione alla stampa, evento che si tenne al campo da golf di Deauville il 16 maggio
del 1968. La presentazione al pubblico avvenne invece il 3 ottobre dello stesso anno al Salone dell’Automobile di Parigi e il modello riscosse un notevole successo – se si considera che era destinato a una piccola nicchia di mercato: alla fine della manifestazione, la
Méhari aveva già raccolto 500 ordini.
Il nome Mehari richiama quello di una rinomata razza sud-arabica di dromedari della regione del Mahra, che dà origine al dromedario da corsa chiamato appunto mehari (arabo mahrī, “del Mahra”). Nel caso della nuova vettura, voleva alludere alla sua resistenza anche in condizioni più difficili e alla sua sobrietà nel consumo di carburante. La Mehari riprendeva l’intero comparto meccanico della Dyane, a partire dal motore bicilindrico di 602 cc, raffreddato ad aria e accreditato di una potenza massima di 29,6 CV (DIN). Sospensioni, impianto frenante, sterzo, trasmissione (con trazione anteriore) e cambio erano a loro volta derivati dalla Dyane. Motore, cambio e resto della meccanica furono fissati su un telaio a piattaforma derivato direttamente da quello della 2CV, rispetto al quale, però, fu accorciato di 22 cm per risparmiare ulteriormente
peso. Il che si tradusse in una maggiore maneggevolezza e in un’abitabilità meno favorevole. Sul telaio venne imbullonata una inedita carrozzeria in materiale plastico, la cui lavorazione costituì la vera specialità della SEAB: tale soluzione permetteva di evitare la formazione di ruggine e garantiva un sensibile risparmio di peso. Inoltre, avendo utilizzato plastica colorata in massa, non si correva neppure il rischio che si potesse scrostare la vernice. Le zigrinature longitudinali della carrozzeria garantivano migliori doti di rigidità. Grazie al suo peso a vuoto di soli 475 kg, la Mehari riusciva a compensare almeno in parte la modesta potenza del suo propulsore. La velocità infatti, non superava i 95 km/h con la capote montata e i 110 km/h in configurazione aperta. Una delle sue caratteristiche più spiccate era l’equipaggiamento molto spartano: le portiere erano inizialmente in tela con finestratura in vinile trasparente. Il divanetto posteriore poteva essere rimosso lasciando spazio a un piano di carico ampio (da circa 1,2 metri quadrati di superficie) per una portata massima di 400 kg.
Gli esemplari presentati a Parigi e a Deauville erano di pre-serie e differivano da quelli definitivi per alcuni particolari. Tra questi, le ruote con coprimozzi, gli indicatori di direzione anteriori sotto i proiettori, i fanalini posteriori analoghi a quelli della 2CV, la ruota di scorta sistemata a sinistra. All’impianto SEAB venne in seguito affidato il compito di assemblare i primi 2.500 esemplari definitivi.
Dalla fine del 1969 vennero apportati lievi aggiornamenti al frontale, tra cui il riposizionamento di alcune luci di servizio, come gli indicatori di direzione frontali. Dal 1970 le porte divennero parzialmente in plastica e apparvero un nuovo specchietto retrovisore esterno rotondo e un rudimentale antifurto.
Nel 1972 la gamma si allargò con l’arrivo di una versione denominata Mehari Type Armée e caratterizzata dalla presenza di due batterie da 12 V: si trattava di una variante concepita per l’impiego da parte dell’esercito e riscosse un certo successo, visto che fu prodotta in 11.500 esemplari. Nel 1975 fu introdotto un nuovo cruscotto con voltmetro e nel 1977 venne adottato l’impianto frenante a doppio circuito, oltre allo sterzo più demoltiplicato. Nel 1978 ricevette una nuova calandra smontabile, mentre gli indicatori di direzione migrarono nuovamente sotto i fari come negli esemplari di pre-serie. Inoltre l’impianto frenante ricevette i dischi anteriori. La novità più consistente arrivò nel maggio del 1979 con il debutto della Mehari 4×4, versione con maggiori ambizioni fuoristradistiche in quanto provvista di trazione integrale. Rispetto alla versione a 2 ruote motrici la 4×4 presentava numerose modifiche tecniche, tra cui un nuovo ponte posteriore dotato di differenziale bloccabile. Anche il cambio era differente, avendo 7 marce, di cui 3 ridotte, mentre l’impianto frenante era a 4 dischi. Grazie alla trazione integrale e al cambio con le marce ridotte, la 4×4 era in grado di affrontare anche pendenze del 60%. In questa configurazione, il peso a vuoto arrivava a 555 kg. La 4×4 fu utilizzata come mezzo di pronto soccorso durante i rally in Africa. Contemporaneamente al lancio della 4×4 tutta la gamma beneficiò dell’arrivo del cruscotto della Citroën LNA. Nel 1982 la 4×4 venne aggiornata nelle sospensioni, ora più basse da terra, e nella carrozzeria, con passaruota allargati. Il vano della ruota di scorta passò sopra il cofano anteriore. Nel 1983 la 4×4 venne tolta dal listino, mentre apparve la serie limitata Azur: dato il successo di quest’ultima versione, essa venne integrata nella gamma Méhari. L’ultima Méhari
è uscita dalle linee di montaggio il 30 giugno 1987 al termine di una carriera quasi ventennale durante la quale è stata prodotta in 144.953 esemplari, di cui 1.213 a trazione integrale.
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