In Italia, le auto aziendali. Negli USA, e in Norvegia, quelle elettriche. Sotto processo è sempre la mobilità individuale su gomma. Nel segno di una fiscalità sempre più rapace che nel Belpaese gioca le sue carte sul tema dell’odio sociale verso i colletti bianchi che dispongono di una company-car anche per gli spostamenti personali e dall’altro chiede alle auto “alla spina” di partecipare con le imposte che gravano su di esse ai costi per ampliare le infrastrutture di ricarica. Il risultato è che, in entrambi i casi, le scelte dei privati e delle aziende non sono orientate esclusivamente o prevalentemente dalla leva tecnologica, dalla sensibilità ambientale o dal “costo neutro di esercizio” (ossia le spese al netto della fiscalità) bensì da una valutazione economica complessiva fortemente condizionata dai costi che l’Erario (e le amministrazioni locali) caricano sull’automobile e sul suo impiego. L’Italia è già oggi in una condizione di svantaggio rispetto alla maggior parte dei Paesi europei in tema di fiscalità dell’auto aziendale e le nuove imposte che l’esecutivo di sinistra intende far gravare sulle company-car vanno in direzione opposta rispetto all’auspicato allineamento con i Paesi più virtuosi in tal senso. Al momento di andare in stampa con questo numero di AutoCapital la discussione sulla Legge di Bilancio è ancora in divenire ed è auspicabile che l’ipotesi di tassare ulteriormente le company-car venga smentita dai fatti. Perché, al pari di quanto accaduto per il Superbollo, essa porterebbe a una riduzione degli introiti erariali, come spiega correttamente Aniasa, l’Associazione nazionale industria dell’autonoleggio e servizi automobilistici. Secondo le proiezioni dei suoi dirigenti, la norma, anche se mitigata, avrebbe un impatto depressivo sull’interno settore automotive arrivando a generare un buco al fisco di circa 700 milioni di euro, vale a dire la differenza tra le minori entrate previste (oltre 1 miliardo di euro) e il gettito previsto dal Ministero dell’Economia (300 milioni). Questo per effetto delle scelte “difensive” delle aziende che saranno indotte a prorogare i contratti in essere, rinunciando a nuove immatricolazioni stimate in almeno 300mila unità. Un secondo e etto perverso che la nuova norma andrebbe a generare riguarda l’aumento dell’anzianità del parco-auto nazionale, uno tra i più vetusti, insicuri e inquinanti d’Europa, con un’anzianità media superiore ai 10 anni. L’anzianità media delle company-car, da parte sua, passerebbe rapidamente da 4 a 5 anni. La motivazione “green” non è sostenibile: le auto aziendali utilizzate dal personale commerciale non possono essere elettriche o ibride plug-in ma quasi esclusivamente Diesel anche e soprattutto per le carenze a livello di infrastrutture di ricarica. Il legislatore è nudo:
la scelta di penalizzare le company-car risponde solo alla necessità esclusivamente politica di realizzare un populismo di bassa lega con il quale si a erma di voler porre fi ne a (immaginari, ndr) fenomeni di elusione fi scale e contributiva connessi al diverso trattamento fiscale dei fringe benefit e più in generale della quota non monetaria delle retribuzioni. E tutto ciò rischia di mettere a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro, nel settore dell’industria automobilistica, del commercio e dell’indotto. Ancora una volta, l’incompetenza al potere.
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